Ricordi in bottiglia

Le serate in casa erano sempre uguali: il rumore del portone che sbatteva contro il muro annunciava il suo ritorno. La madre sobbalzava e, come fosse un riflesso condizionato, stringeva più forte il grembo. Il piccolo Marco, rannicchiato sul divano, tratteneva il respiro. Poi, immancabilmente, arrivava il tonfo di un bicchiere che cadeva e si rompeva, seguito dall’urlo rauco del padre, un misto di rabbia e ubriachezza. Quell’uomo era una presenza incombente e devastante. Lo odiava per quello che faceva alla madre, per il suo linguaggio volgare, per i modi violenti e per quell’aria di falsa onnipotenza che pareva accendersi ad ogni sorso di birra. Ma lo ammirava anche, in segreto. Quell’urlo, quello stesso che gli faceva tremare le mani, gli sembrava una dimostrazione di forza. Forse, pensava, un uomo davvero forte si comporta così.

Gli anni passarono, e Marco portò quel padre con sé. Non il corpo, che un giorno scomparve, inghiottito dalla malattia, ma l’ombra viva, radicata dentro di lui. Dentro di lui, il padre non era mai davvero assente. Si annidava nel desiderio negato di un affetto mai ricevuto, nel vuoto riempito da urla e pugni. E così Marco divenne uomo, ma quell’oggetto interno, come lo chiamano gli psicologi, lo tormentava.

Ogni sera, tornato a casa dal lavoro, Marco ripeteva un rituale che nemmeno sapeva di aver ereditato. Si sedeva al tavolo e stappava la prima bottiglia, poi la seconda, la terza, sempre quattro. Solo allora il peso sul petto sembrava allentarsi e l’eco di quell’urlo si faceva più lontano. Non si trattava di piacere, né di sollievo: era fedeltà. Un atto inconscio di lealtà verso un padre che aveva odiato ma che non poteva lasciar andare.

Una sera, parlando con la sua psicologa, Marco confessò: «Non posso smettere. Le quattro birre… sono come un dovere. Mio padre era un alcolista. Non capisce? Se smettessi, sarebbe come tradirlo».
La dottoressa rimase in silenzio per un momento, poi disse con dolce fermezza: «Non tradirebbe suo padre, Marco. Tradirebbe quell’ombra che lui le ha lasciato. E quell’ombra non è suo padre: è una parte di lei, una parte che può trasformare».

Marco esitò. Quella frase gli risuonava stranamente familiare. Gli sembrava che per la prima volta qualcuno desse voce a ciò che provava. Le birre non erano altro che un ponte, un tentativo disperato di mantenere vivo un legame spezzato, pieno di rabbia ma anche di amore. Freud lo avrebbe chiamato “ambivalenza dell’oggetto interno”, quella confusione di emozioni che può condurre alla depressione: amare ciò che si odia e odiare ciò che si ama, senza riuscire a spezzare il ciclo.
La psicologa continuò: «Il suo dolore non è solo per suo padre, ma per quella parte di sé che lo ha amato e che lui ha deluso. Forse è il momento di lasciare che quella parte si esprima diversamente».

Le parole iniziarono a sedimentarsi. Marco non smise di bere subito, né fu facile. Ma iniziò a riflettere. Capì che non era più solo il figlio spaventato che voleva conservare qualcosa di suo padre dentro di sé per non perderlo del tutto. Pian piano, cominciò a costruire un nuovo rituale: una birra, non quattro, alzata a se stesso e al suo coraggio di guardare quella ferita e darle una voce.

E ogni sera, l’urlo del padre si faceva un po’ più lontano. Non era più un’eco che lo perseguitava, ma un ricordo che finalmente poteva iniziare a comprendere, accettare e lasciare andare.

Ricordi in bottiglia: l'eco di un passato che plasma il presente

Le esperienze infantili si radicano profondamente in noi, diventando una trama sottile che modella la nostra identità e i nostri comportamenti futuri. La storia di Marco, narrata attraverso il racconto “Ricordi in bottiglia”, è un esempio potente di come un passato doloroso possa influenzare il presente.

Dal punto di vista dell’inconscio, l’assenza fisica o emotiva di una figura genitoriale non corrisponde a un’assenza psichica. Un genitore “assente” è percepito come qualcuno che vive altrove, sottraendosi ai nostri bisogni e desideri. Questo genera un vuoto, ma anche un desiderio intenso e irrisolto, che resta vivo nella mente. Il genitore assente o inadeguato non sparisce: diventa una presenza psichica costante, un “oggetto interno”.

Freud, in “Lutto e melanconia”, spiega che interiorizziamo le figure genitoriali, creando oggetti interni che, se contraddittori, possono provocare conflitti. L’oggetto interno ambivalente suscita amore e odio: lo amiamo perché ne abbiamo bisogno, ma lo odiamo per le ferite che ci ha inflitto. Questo è il caso di Marco, che interiorizza il padre alcolista, violento e assente, ma anche forte e imponente. La sua ambivalenza psichica si manifesta nella coesistenza di odio e disprezzo per il genitore, sentimenti alimentati dalla rabbia per le ferite subite, e il bisogno profondo di mantenerlo vivo dentro di sé, come un modello (anche negativo) con cui confrontarsi. L’assenza fisica del padre, quindi, non lo libera dalla sua presenza psichica: al contrario, essa diventa più intensa, un “fantasma” che lo accompagna e influenza costantemente.

Le neuroscienze ci offrono ulteriori strumenti per comprendere questo fenomeno. I comportamenti osservati o vissuti durante l’infanzia si sedimentano nel nostro corpo e nella nostra mente. I neuroni specchio si attivano sia quando agiamo sia quando osserviamo o immaginiamo un’azione. Questo significa che le azioni del genitore, anche quelle traumatiche, si inscrivono nel nostro sistema nervoso, condizionando i nostri movimenti, emozioni e schemi d’azione.

Nel caso di Marco, la scena ripetuta del padre che urla e picchia la madre ha scritto una “traccia” nel suo corpo e nella sua psiche. Non solo Marco è stato spettatore passivo, ma il suo sistema motorio ha inconsciamente “replicato” quel modello, preparandolo ad agire o sentire in modo simile. In un certo senso, il padre è diventato parte di lui.

Il processo di interiorizzazione spiegherebbe perché Marco, da adulto, riproduce inconsapevolmente il comportamento del padre. Ogni sera, attraverso il rituale delle quattro birre, Marco “mantiene vivo” il legame con il genitore interiorizzato. Questo non è semplicemente un’abitudine, ma un modo per restare fedele a quella parte di sé che è stata modellata dal padre, anche se distruttiva. La madre sottomessa, il padre violento: queste immagini diventano schemi interiorizzati, automatismi che influenzano il comportamento senza passare per il controllo consapevole. Marco beve per fedeltà, per non tradire l’ombra del padre che vive dentro di lui.

Il percorso terapeutico di Marco rappresenta una via di speranza. La psicologa, con dolce fermezza, gli ha offerto una nuova prospettiva: non tradire suo padre, ma liberarsi dall’ombra che lui aveva lasciato. Questo passaggio è cruciale nella terapia: trasformare la memoria di un’esperienza da prigione emotiva a semplice ricordo.

La storia di Marco ci ricorda che il cambiamento non avviene in un istante. È un processo graduale che richiede di guardare il dolore, accoglierlo e permettere a nuove narrative di emergere. Marco non ha smesso di bere immediatamente, ma ha iniziato a trasformare il rituale distruttivo in un gesto simbolico: una sola birra, alzata per celebrare il coraggio di affrontare la propria ferita.

Questa storia illustra come i genitori, anche quando assenti o inadeguati, si inscrivono profondamente nella psiche dei figli. I comportamenti vissuti nell’infanzia diventano modelli interiorizzati che si ripetono in modo automatico. Per interrompere questo ciclo, è necessario riconoscere che il dolore del passato può essere ricordato, ma non ha il potere di possedere il corpo nel momento presente. Il terapeuta lavora per cambiare la trama di quella storia che si è incisa nel corpo, separandola dalle reazioni automatiche e inconsce che si attivano ogni volta. Non si tratta di negare il passato, ma di restituirgli il suo vero posto: una memoria, e non una prigione. La sofferenza che un tempo occupava ogni spazio, diventando un copione che sembrava inevitabile, viene trasformata in qualcosa di riconoscibile e affrontabile.

La storia di Marco ci insegna che il passato, per quanto doloroso, non deve definire il presente. I modelli appresi nell’infanzia possono essere riconosciuti e trasformati. La terapia offre gli strumenti per spezzare i cicli automatici, permettendo di riscrivere il copione della propria vita.

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